L’uomo avrebbe aggredito la madre con alcuni massi al culmine di una lite, per poi costruirsi un alibi
Avrebbe ucciso la madre colpendola violentemente alla testa con diversi massi, al culmine di uno scatto d’ira innescato da una lite. A distanza di tre anni il cerchio attorno al 43enne Angelo Fabio Matà si è stretto e, su delega della Procura Distrettuale della Repubblica di Catania, la Polizia di Stato lo ha arrestato nel corso della notte, in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal Gip del Tribunale di Catania per l’omicidio di Maria Concetta Velardi, 59 anni, con l’aggravante di aver commesso il fatto contro la madre.
Alle ore 16.20 7 gennaio 2014, Matà chiese l’intervento della Polizia riferendo di avere rinvenuto il cadavere insanguinato del congiunto all’interno del cimitero monumentale di Catania. Giunti sul posto, i poliziotti constatavano la presenza del cadavere della signora Velardi a terra su alcune macchie di sangue, in un corridoio a pochi metri di distanza dalla cappella della famiglia Matà.
In sede di sopralluogo, eseguito in presenza del Pubblico ministero di turno presso la Procura Distrettuale della Repubblica di Catania, che si era recato sul posto per coordinare le indagini, personale del locale Gabinetto Regionale di Polizia Scientifica rinveniva, tra la cappella della famiglia Matà ed il cadavere della donna, un sasso intriso di sostanza ematica compatibile per forma e dimensioni con una prima aggressione che la vittima avrebbe subito, mediante uno o più colpi alla nuca che ne avrebbero provocato la caduta a terra. Accanto al cadavere venivano rinvenuti due sassi di grandi dimensioni, intrisi su un lato di sangue.
Sulle pareti del corridoio veniva riscontrata la presenza di tracce ematiche compatibili per forma ed ubicazione con l’ipotesi che nel punto in cui era ubicato il cadavere vi fosse stata una seconda violentissima aggressione, consistita in una serie di colpi inferti al capo ed altre parti del corpo della vittima, che si trovava già stesa per terra, mediante i due pesanti sassi rinvenuti.
Sul viale antistante ove era ubicata la cappella era posteggiata l’autovettura appartenente a Angelo Fabio Matà con la parte anteriore rivolta in direzione di via Acquicella. Su di essa, precisamente vicino alla maniglia di aperura dalla portiera posteriore destra, veniva rinvenuta una goccia di piccole dimensioni di sostanza ematica. Da una prima ricostruzione effettuata dagli investigatori, la vittima appariva essere stata trascinata nel corridoio, essendo stata constatata dal medico legale la presenza di abrasioni nella parte inferiore della schiena che inducevano a ipotizzare che la donna fosse stata trascinata dall’aggressore per ripararsi da sguardi indiscreti, mentre infliggeva i colpi di grazia. Ciò che emergeva in maniera incontrovertibile era che l’omicida doveva possedere grande forza fisica.
Sulla base di tali iniziali risultanze, veniva avviata una complessa ed articolata indagine, anche di tipo tecnico, coordinata dalla Procura della Repubblica di Catania, che si avvaleva del contributo di personale dei Gabinetti Regionali di Polizia Scientifica di Catania e di Palermo (specie per ciò che concerne la ricerca e la catalogazione di tracce di sostanza biologica) che consentivano di acquisire univoci e concordanti indizi di colpevolezza nei confronti di Angelo Fabio Matà evidenziando, quale movente del delitto, il rapporto conflittuale esistente tra quest’ultimo e la madre. Tre testimoni hanno raccontato di aver udito le urla della donna nel corso dell’accesa discussione con il figlio.
Le dichiarazioni e i dati medico-legali permettevano di stabilire che l’aggressione alla donna andava collocata tra le ore 15:30 e le ore 15:45 circa del 7 gennaio 2014. Perpetrata l’aggressione, Matà si precostituiva un alibi, cercando di simulare che l’aggressione alla madre fosse avvenuta durante la sua assenza dal cimitero ed effettuando con la propria autovettura un giro che creasse un lasso di tempo sufficiente a tale scopo.
Invero, l’analisi dei tabulati non disgiunte dalle dichiarazioni rese dalle persone presenti al cimitero, consentivano di affermare che la Velardi era stata aggredita in un lasso di tempo nel quale il figlio si trovava all’interno del cimitero.
Al ritorno, Matà metteva in piedi la messinscena del disperato rinvenimento con le mani piene di sangue, in modo da giustificare ogni eventuale traccia ematica della madre su di sé come frutto di contaminazione derivante dal rinvenimento e dalla manovre effettuate.
Gli esiti degli accurati esami svolti dalla Polizia Scientifica consentivano di affermare che, mentre subiva l’aggressione, la 59enne graffiava con la mano destra il figlio, fatto dimostrato sia dalla presenza di materiale genetico riconducibile a Matà sotto due unghie della mano destra della vittima, sia dalla presenza di sostanza ematica dell’indagato (anche mista a sangue della madre) sugli abiti e sullo sportello dell’autovettura.
Sul movente veniva accertato che l’uomo, a seguito di un’accesa lite con la madre, aveva avuto una violentissima reazione, frutto del rancore a lungo covato nei confronti del genitore, ritenuta ostacolo alla realizzazione di progetti di vita personale. Per Angelo Fabio Matà si sono schiuse le porte del carcere catanese di Piazza Lanza a disposizione dell’autorità giudiziaria.