Uno studio di cui ci siamo fatti carico indica che la galleria che attraversa il ventre del colle potrebbe essere un “qanat”, un canale idrico per il convoglio e l’approvvigionamento dell’acqua dell’antica Paternò
All’interno della Collina storica di Paternò si snoda un tunnel che la attraversa quasi per intero nella sua estensione. Questo cunicolo, oggi utilizzato come condotta idrica da una società privata, richiama subito alla mente la tradizionale leggenda che vuole collegati – attraverso passaggi sotterranei – i castelli di Adrano, Paternò e Motta Sant’Anastasia. Non sappiamo quando questa leggenda cominciò a diffondersi, ciò che sappiamo è che i nostri avi la conoscevano bene tanto da farla giungere fino a noi. Ogni leggenda, come si sa, ha un fondo di verità, e anche in questo caso la genesi di questo mito popolare trova spiegazione nella presenza di questo cunicolo sotterraneo, dimenticato dalla storia ma non dalla tradizione orale. Da qui il passaggio dalla realtà alla leggenda fu breve, non sapendo cosa fosse e a cosa servisse, al tunnel si diede una funzione improbabile, ovvero quella accennata prima di passaggio segreto, magari come via di fuga che dal Castello conduceva fuori dalle mura della Paternò medievale.
Oggi, dunque, sappiamo che il tunnel esiste davvero. Ma cos’è in realtà questo condotto che per secoli è rimasto nascosto? Un manufatto che per secoli, perfino storici e studiosi hanno ignorato o non tenuto in considerazione? Cerchiamo di sciogliere il mistero fornendo delle risposte basate su studi mirati e comparativi di cui ci siamo fatti carico. Con molta probabilità il tunnel della Collina di Paternò è un qanat risalente al periodo della dominazione araba della Sicilia iniziata nell’827 e conclusasi nel 1091. I qanat erano dei canali usati per il drenaggio e il trasporto idrico per fornire una fonte stabile per l’approvvigionamento d’acqua in insediamenti umani nonché per l’irrigazione di campi. Sappiamo che questa tecnologia si sviluppò inizialmente nell’antica Persia verso il VII-VI secolo a.C., per diffondersi successivamente in altre aree geografiche, dal Mediterraneo alla Cina. I Romani ne costruirono in Libia e Tunisia, mentre secoli dopo la caduta dell’Impero Romano furono gli Arabi a realizzarne numerosi nei territori da loro conquistati, sviluppandone la tecnica costruttiva per sfruttare al meglio le risorse idriche.
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A Palermo, la Balarm capitale dell’Emirato della Siqilliyya araba, è presente ancora oggi una rete di qanat. Essi, secondo gli storici, risalgono al IX-XI secolo, cioè al tempo della dinastia aghlabide, mentre per altri studiosi la datazione potrebbe essere antecedente, fissandola al periodo ellenistico-romano, ma è molto più verosimile la prima ipotesi. Per completezza di informazioni aggiungiamo che, oltre che a Palermo, in Sicilia tunnel simili sono presenti anche a Siracusa, Francofonte e Licata.
I qanat palermitani sono costituiti da una serie di cunicoli verticali simili a pozzi, collegati da un canale sotterraneo in lieve pendenza. Attraverso questa tecnica si attingeva a una falda acquifera in maniera da trasportare efficientemente l’acqua in superficie senza necessità di pompaggio, l’acqua fluiva per effetto della gravità.
Come tipologia costruttiva, i qanat palermitani sono generalmente caratteristici dell’area mediterranea, ma più strettamente essi hanno affinità con quelli della penisola iberica.
Di questa rete idrica palermitana – che annovera qanat particolarmente interessanti come quello del “Gesuitico alto” – è interessante notare che hanno rifornito d’acqua la capitale siciliana fino al XIX secolo.
Ma, per il nostro studio, i canali idrici di Palermo a noi interessano per capire meglio quello paternese. Difatti, attraverso analisi comparative tra il canale di Paternò e quelli di Palermo possiamo dedurre forti affinità ingegneristiche e stilistiche che inducono a pensare che quello di Paternò fu un qanat realizzato in epoca araba per l’approvvigionamento dell’acqua da parte degli abitanti dell’antica città sul Colle. Il canale paternese è scavato nella roccia basaltica e nel tufo nel ventre della sua collina, un dato che costituisce già di per sé un caso unico. Il lavoro di costruzione dovette essere impegnativo e faticoso; esso fu scavato a una quota che varia dai 225,3 metri in ingresso fino ai 223 metri in uscita.
Si snoda per circa 420 metri in modo pressoché rettilineo in direzione nord-ovest/sud-est dalla zona di San Marco (dove si trova il portalino d’accesso) fino alla zona di San Giacomo (dove è presente il portalino d’uscita).
La sua altezza tocca mediamente i 2 metri, mentre la larghezza non supera il metro e 20 cm circa, un budello sotterraneo, quindi, che oltre all’acqua permetteva il passaggio agli uomini per potere effettuare lavori di manutenzione. Il canale ha una lieve inclinazione (0,5 %) che permette, per il principio di inerzia, il lento defluire dell’acqua al suo interno; l’acqua che ancora oggi qui vi scorre è l’Acqua della Botte, la cui sorgente si trova in territorio di Santa Maria di Licodia, la stessa acqua che in epoca romana arrivava fino a Catania grazie al famoso acquedotto di cui rimangono ancora alcuni tratti.
Come detto prima il tunnel è scavato nella roccia e nel tufo, e in alcune porzioni presenta opere murarie con blocchi e basole lavici usati lungo alcuni tratti del corridoio, e in maniera particolarmente originale come copertura del canale. Questa tecnica costruttiva della copertura è fortemente affine a quella palermitana, là dove si utilizzarono blocchi di pietra posizionate “a contrasto”, a “fornace” o alla “cappuccina”.
Questa similitudine architettonica – assieme ad altre affinità ingegneristiche e stilistiche, quali ad esempio le proporzioni dei canali – ci consente di identificare con maggiore certezza il tunnel di Paternò come un qanat.
Pertanto, la Collina di Paternò conserva al suo interno una straordinaria opera ingegneristica riferibile gli Arabi e databile tra IX e l’XI secolo.
Ma come faceva l’acqua del canale ad arrivare in superficie? Solitamente lungo i Qanat venivano realizzati i cosiddetti pozzi seriali, cioè dei pozzi verticali da cui attingere l’acqua dalla superficie. Nel qanat paternese, a prima vista, non si riscontrano fori che potessero essere stati usati come pozzi, forse essi furono chiusi quando la collina si spopolò, o forse per portare l’acqua in superficie veniva adottato un altro sistema a noi sconosciuto. Quest’ultimo aspetto è ancora da indagare. In conclusione possiamo affermare che il tunnel di Paternò ha tutte le caratteristiche di un qanat per l’approvvigionamento dell’acqua da parte degli abitanti della dell’araba Batarnù che sorgeva, appunto, sulla collina.
Ricordiamo, infatti, che il Colle è stato abitato con una continuità pressoché ininterrotta dal neolitico fino al XVII secolo. Pertanto l’esigenza di un costante rifornimento d’acqua per i suoi abitanti fu per secoli un problema che necessitò di interventi risolutivi.
Non mancarono le cisterne di raccolta di acqua piovana, come ancora ci testimoniano le cisterne del castello, del convento di San Francesco e i resti di una cisterna romana rilevabile dinanzi la chiesa di Cristo al Monte. Probabilmente sul Colle erano presenti altre cisterne oggi non più visibili, realizzate all’interno di conventi, monasteri o altri edifici privati di un certo rilievo.
Diversamente, il qanat ipogeo doveva servire per un uso pubblico dell’acqua. Un’altra spiegazione sull’epoca di realizzazione e sull’utilizzo del canale idrico della Collina di Paternò sembrerebbe non plausibile. Infatti, forare da un estremo all’altro una collina prevalentemente rocciosa, attraverso un faticosissimo lavoro manuale, avrebbe avuto senso solo per rifornire di acqua fresca e potabile la popolazione di Paternò. Diversamente, per portare l’acqua dalla sua sorgente fino alla Piana di Catania sarebbe bastato semplicemente aggirare la collina con una condotta in superficie. Pertanto, la tesi del qanat sembra la più accettabile; tesi a nostro avviso comprovata dallo studio qui presentato e che induce a riscrivere una pagina di un periodo di cui si sa poco della lunga e complessa storia di Paternò.
(Nota: si ringraziano gli architetti Francesco Finocchiaro e Giuseppe Mirenda per gli importanti contributi allo studio)