Quell’imbarcazione precaria ha iniziato ad imbarcare acqua. Alla fine una luce, in lontananza, della barca della guarda Costiera Italiana, che fa capire a Musad che anche quella volta volta è riuscito ad ingannare la morte
“Se questo è un uomo. Voi che vivete sicuri, nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: Considerate se questo è un uomo, (…), che non conosce pace, che muore per un si o per un no”. Già, “Se questo è un uomo”, lo stesso uomo che Primo Levi raccontò nel suo libro autobiografico testimonianza dell’orrore dei campi di sterminio nazisti introdotto dall’omonima poesia, che sale insieme ad altri 120 compagni di avventura sopra un barcone di soli 9 metri che dopo poche ore di navigazione inizia ad imbarcare acqua. È questo l’unico pensiero che riesce a passare dalla mente nel sentire le vicende di persone come noi, con due occhi, due gambe, un cuore, ma che hanno avuto la sfortuna di essere nati qualche parallelo più in giù del 35° Nord. Dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) di Santa Maria di Licodia, dopo aver raccontato la bella pagina di integrazione (rileggi l’articolo), vogliamo adesso raccontare la vita di due siriani presenti in Italia. Ameer di 44 anni e Musad di 36 (sono nomi di fantasia per tutelare i rifugiati). Due esperienze differenti ma accomunate da un solo obbiettivo: una vita migliore, soprattutto per i loro figli.
Ma prima di parlare della loro vita, vogliamo raccontarvi una storia. Una di quelle che ormai vediamo in televisione senza farci più caso. E talmente non ci fai più caso, che riesci a mangiare il tuo piatto di pasta o la tua cotoletta con le patatine anche quando al tg delle 13 passano queste immagini. Una di quelle storie che sui social, grazie al complottista di turno che non ferma la propria arguta mente nemmeno di fronte ad una immagine di 3 bambini morti in mare, ci fa sorgere il dubbio che possa essere vera e non frutto di una grande fiction. Vogliamo raccontarvi di come Musad è giunto in Italia con la sua famiglia e chiedervi, solo alla fine, “Se questo è un uomo”.
«Questa esperienza non l’ho vista come un uomo, perché un uomo non può rischiare, salire su un barcone in quel modo li e attraversare il mare». Esordisce così Musad durante il suo racconto che descrive l’arrivo in Italia con la sua famiglia. Un ragazzo di 36 anni che si chiede se il gioco ne sia valso la candela. Il tarlo del viaggio verso l’Europa, la terra promessa del terzo millennio, patria tanto desiderata dai nuovi Mosè che fuggono dalla loro persecuzione, si è insediato nella mente di Musad durante una cena con amici. «Sentivo, parlavo con le persone, però sentivo anche che la gente parte ma non si hanno più notizie, sicuramente perché morte in mare, ma anche che qualcuno è arrivato. Sentivo questo discorso del viaggio via mare. Sono stato ad una cena da amici, ho trovato altri siriani e mi sono messo a parlare. In Libia la situazione stava cambiando e quindi abbiamo deciso di viaggiare».
È stato lui stesso a pianificare il viaggio per tutta la sua famiglia, contattando telefonicamente i trafficanti. Un viaggio che gli sarebbe costato 8 mila dinari (pari a circa 2 mila dollari). «A Tripoli c’è l’Onu. Per parlare con loro, non puoi parlare direttamente, ma c’è sempre un libico come garante. Ho chiesto: “potete aiutarmi ad arrivare (in Europa, ndr)? Sono siriano”. Mi è stato detto: “il mare è aperto, vai”». Quindi per Musad non rimaneva altro che la strada clandestina. Una fase preparatoria del viaggio molto difficile, dove i trafficanti creavano un clima ostile, di aggressione verso chi deve intraprendere la traversata «Quando siamo arrivati, ed eravamo radunati, usavano un sistema per mettere paura psicologica verso i giovani e i ragazzi, con insulti, per demotivare, così quando sali sul barcone stai più tranquillo».
Il viaggio della famiglia di Musad non è iniziato subito, ma gli scafisti hanno fatto 3-4 tentativi di partenza, sia per via del mal tempo e del mare grosso sia perché alcune volte arrivavano delle soffiate di controlli da parte della guardia costiera libica. «La prima volta che siamo stati radunati, ho capito il pericolo e ho detto di volermi fermare. La risposta degli scafisti è stata “non esiste, ormai sei qui”». Gli scafisti, infatti, non rimandano nessuno indietro, per timore che possano raccontare quello che hanno visto. Quando il gommone parte, ci spiega Musad, ci sono due barche a motore che navigano insieme all’imbarcazione con i migranti, che trascinano quest’ultima fino al confine con le acque internazionali. Uno degli scafisti guida il gommone, prima di bloccare il timone in direzione Italia, per poi ritornare con le altre due imbarcazioni in Libia. Una volta staccate le due imbarcazioni da traino, come se non bastasse, i barconi della speranza vengono assaliti anche da pirati che con armi alla mano derubano gli occupanti.
«Le famiglie si sono rifiutate di salire, perchè non c’era posto. Hanno preso le armi e hanno detto “sali”. L’accordo era un gommone di 11 metri e mezzo, 65 persone. All’arrivo abbiamo trovato un gommone di 9 metri, con 60 persone ma hanno portato altri 65 africani. 125 persone in tutto su un gommone». Dopo circa 12 ore di navigazione, racconta Musad con la paura ancora negli occhi stemperata da un sorriso che vorrebbe nascondere la tragedia personale vissuta, quell’imbarcazione precaria ha iniziato ad imbarcare acqua. Alla fine una luce, in lontananza, della barca della guarda Costiera Italiana, che fa capire a Musad che anche quella volta volta è riuscito ad ingannare la morte.
La storia di Ameer
Ameer , 44 anni, siriano, in Italia da un anno e 4 mesi. Il suo nucleo familiare è composto da 7 persone e tutti sono in possesso dello status di rifugiato. La sua storia di migrante ha inizio in una città vicino Aleppo ed ha avuto la fortuna di arrivare in un campo profughi in Turchia. Da li, è stato poi trasferito in Italia tramite un Corridoio umanitario. In Siria, prima della guerra, era un impiegato statale e si occupava di trivellazione di pozzi d’acqua. Un uomo che ha vissuto una persecuzione legata al suo appartenere ad una minoranza, quella siriano-turcomanna, che ha provocato la morte l’uccisione di 22 persone della sua famiglia tra qui anche il padre, cancellato dal fuoco dopo la morte. Dal punto di vista umano, dice di trovarsi bene in Italia, anche per l’accoglienza degli italiani. «Visto che sono un profugo e siamo giunti tramite programmi internazionali dove è coinvolta anche l’UNHCR, vorrei una stabilità anche di lavoro. Vorrei rimanere in Italia, la mia famiglia ha cambiato diverse zone. Vorrei rimanere ma come dovrei fare con la stabilità, per affittarmi una casa? Non sono un emigrato, che cerca lavoro e poi torna a casa. Io non ho casa. Casa mia non c’è più». Anche i suoi figli si sono ben inseriti nella comunità licodiese, frequentano la scuola, vanno in palestra, imparano l’italiano. Quelli più grandi invece vivono le preoccupazioni degli adulti.
La storia di Musad
Musad, 36 anni, siriano della provincia di Aleppo, in Italia dal 14 maggio 2018. È giunto in Italia partendo dalla Siria, passando dal Libano, dall’Egitto, per poi arrivare in Libia spostandosi fino a Tripoli, con tutta la famiglia. La famiglia è composta da Musad, la moglie e tre figli. Sono arrivati a Lampedusa su di un barcone, intercettato in acque internazionali dalla Guardia Costiera Italiana e successivamente condotti nel Cara per l’identificazione. Li hanno chiesto di essere riconosciuti rifugiati ma oggi sono ancora dei richiedenti asilo. Insieme alla famiglia, sono stati poi spostati in un campo vicino Roma e da li autonomamente, già identificati, sono andati verso Milano, per poi raggiungere la Germania e il Belgio. Li, tutta la famiglia è stata “dublinata” e rispedita in Italia. In Siria era un contadino, coltivava terreni e vendeva i prodotti della terra. Durante la sua permanenza in Libia ha imparato il mestiere di piastrellista. La zona da cui viene Musad è una zona in cui si sono create convivenze poco pacifiche tra le diverse fazioni, tra cui l’esercito regolare, i ribelli, l’Isis. «Ogni giorno, ogni settimana, chi ha più forza entra in città conquistandola. Li, o vai con uno di loro e devi combattere, oppure lasci e te ne vai». Nella motivazione della fuga, all’interno del documento identificativo della persona, ha inserito quella legata all’arruolamento coattivo fra le fila dell’Isis. Attualmente si trova bene in Italia e per lui è tutto positivo. Vorrebbe avere un documento che gli permettesse di spostarsi così da trovare una stabilità e non avere aiuti continui perché, dice, «posso lavorare». Continuando, conclude dicendo che «quando otterrò questi documenti, valuterò se posso lavorare qui oppure spostarmi in un posto dove c’è lavoro. Ma sarò legato all’Italia perché avrò un permesso di soggiorno italiano».
Soltanto adesso, dopo aver letto queste storie, dopo aver capito che a pochi passi da noi esiste un mondo diverso, fatto di guerra, di sofferenza, di sfruttamento, dove sotto lo stesso cielo stellato si intrecciano vicende di persecuzioni, di guerre, di accoglienza e di speranza, storie che raccontano la crudeltà dell’uomo che si scaglia contro il suo simile, storie di donne che vengono condannate a morte perché si rifiutano di chiudere una palestra a Kabul frequentata da altre donne, solo adesso potrai dire a te stesso “Se questo è un uomo”.