Il paternese Salvo Orto, racconta in un libro la sensazione di panico che sopraggiunge nel momento in cui non si è connessi
Soggiogati dalla tecnologia. Assuefatti dal telefonino e dipendenti dalle connessioni. È un mondo impazzito, schiavo della rivoluzione elettronica che ha perso il senso dei contatti umani, quello descritto da Salvo Orto in “Nomofobia” edito da Kimerik. L’autore, un idealista votato alla libertà scevra da qualsiasi condizionamento, ambisce, giustamente, al domino di sé e al primato delle relazioni umane. E sembra riuscirci, almeno dal suo racconto.
Questo ventiseienne paternese, ottico di professione, ma scrittore per passione, ha redatto un saggio sulla “nomofobia” che come spiega nel testo: «Il termine è composto dal prefisso abbreviativo “no-mobile” e dal suffisso “fobia” e si riferisce dunque alla paura di rimanere fuori dal contatto di rete mobile», avvalendosi di studi e articoli scientifici ha dimostrato come questo disturbo affligga, senza distinzione d’età, la quasi totalità della popolazione che possiede un cellulare di ultima generazione, insomma uno smartphone.
Fagocitati da una piccola scatola che contiene una infinità d’informazioni, non sempre utili, il popolo internettiano delle connessioni no-stop, è giunto alla situazione paradossale di sentirsi pressoché a disagio nel mondo reale, pascendosi, di contro, di ogni certezza in quello virtuale. Orto con il suo libro denuncia una situazione preoccupante, una nuova forma di alienazione psicologica che in molti casi sfocia in una vera patologia, con la manifestazione di stadi di ansia, angoscia e scatti d’ira improvvisi nel momento in cui si percepisce che il cellulare sta per spegnersi o non c’è un’adeguata connessione. Un disagio non esclusivo dei giovani o dei nativi digitali – anche se l’autore evidenzia come proprio rispetti a questi soggetti bisogna urgentemente porre dei limiti, delle regolamentazioni comportamentali per prevenire il fenomeno – ma anche di persone di una certa età, sulla sessantina, ormai perennemente con il capo chino sul proprio cellulare.
Un altro elemento che desta forti preoccupazioni, o dovrebbe destarne nell’intento dell’autore, è che questa coercizione, o bisogno ossessivo di guardare il telefonino non si arresta neanche in alcuni momenti e nel corso di attività in cui l’attenzione dovrebbe essere massima, come nel caso in cui ci si trovi alla guida di un veicolo o si stia attraversando la strada. Le conseguenze di simili atteggiamenti sono documentati dai tanti fatti di cronaca, dunque conseguenze, talvolta, davvero drammatiche.
Il nostro autore, non misconosce i progressi, l’importanza di uno strumento d’evoluzione straordinario qual è internet, ma sull’abuso che se ne fa esprime più di una perplessità. Ad infastidirlo è soprattutto la spersonalizzazione delle relazioni fra individui mediati ormai dai mezzi di comunicazione del web, in cui anche la scelta di fare una semplice telefonata per sentire la voce di qualcuno è diventata ormai rara.
Si preferisce inviare messaggi anche tramite Wathapp, a volte prive di testo ma con semplici immagini, un’involuzione – almeno dalla percezione di Orto – del linguaggio umano, delle sue facoltà di comunicazione, insomma una sorta di aberrante ritorno ai graffiti delle caverne preistoriche.
A questo, l’autore, contrappone la bellezza della lingua italiana, la meravigliosa sensazione di «guardare le persone negli occhi» e quella di cogliere i loro reali sentimenti. Inoltre – a sua avviso – sarebbe opportuno utilizzare il cellulare per quello che è stato concepito. Auspica che ognuno possa riprendersi il suo tempo, il necessario silenzio preparatorio alla riflessione, e quindi la possibilità di pensare (come attitudine umana imprescindibile), e il tempo di stare con gli altri, a mani vuote senza il cellulare che sposta la mente altrove: «Ritrovare il gusto delle vecchie abitudini sarebbe un gran passo avanti, disintossicarsi dalla routine tecnologica sarebbe positivo, ma occorre una grande forza di volontà, tanto coraggio».